Zio Vanja

LA MONOTONIA DELLA VITA Affrontata da un grande Michele Placido con uno stupefacente  Sergio Rubini per:

                                                                ZIO VANJA

             Un testo forte, di grande impatto è quello presentato al teatro “Del Popolo” di Castelfiorentino il 22 e 23 gennaio. Lo spettacolo, veramente bello, riusciva a rapire il pubblico presente – teatro sempre esaurito – grazie alla maestria degli attori per “Zio Vanja” valente testo di Cechov.

Rubini, nel ruolo dello ‘zietto’, è stato sorprendente per l’alta presenza scenica, per la capacità di dialogo e per quel porsi di fronte al pubblico, in un modo tutto suo, capace di catturare le persone con quella mimica forse un pò strampalata eppure così coerente al suo modo d’essere.

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Il protagonista è uomo innamorato e non ricambiato, sconfitto dalla vita per l’impotenza d’andare avanti, con tutta quella nenia che ciclicamente attanaglia le sue giornate. E allora beve, beve per affogare nell’alcol la sua tristezza, in quanto cosciente d’aver visto evaporare le proprie speranze.

Comico, altamente ironico, sarcastico, vive la vita con rassegnazione non riuscendo neppure ad uccidere con la pistola – ma lo vuole veramente? – suo cognato Serebrijakov . Quest’ultimo – interpretato da Michele Placido – è un uomo anziano, pieno di acciacchi nonché inviperito per il trascorrere degli anni, il cui unico conforto è quello d’aver sposato una moglie giovane e bella. Ma è anche senza scrupoli: da qui il livore di zio Vanja.

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In un carosello cechoviano si dipanano anche altri personaggi, quali il medico, anche lui altamente incisivo, le fanciulle, così essenziali nei loro lunghi vestiti ottocenteschi che calcano il palco non certamente in maniera anonima, e la cara nonnetta che, col suo bagaglio di conoscenze, continua a cucire la stoffa e forse la vita.

La tensione sale alle stelle nel finale – forse ancora di più nei loro rincorrersi a mò di parapiglia – quando la fanciulla dai lunghi capelli, anche lei in cerca di certezze ma ormai piegata dal destino, teneramente si rivolge a Vanja che cattivo non è mentre…” Che fare? Bisogna vivere! Noi vivremo, zio Vanja. Vivremo una lunga, lunga sequela di giorni , di interminabili sere. Sopporteremo pazientemente le prove che ci manderà la sorte. Faticheremo per gli altri, adesso e in vecchiaia, senza conoscere tregua. E quando verrà la nostra ora, moriremo con rassegnazione e là, oltre la tomba, diremo che abbiamo patito, pianto, sofferto amarezza.

Anche se non sono parole che certamente inneggiano alla vita, bisogna riconoscere nell’opera di Cechov – non è la più conosciuta – l’alta sottigliezza di questa infelicità che pervade tutto, con quel senso di decadenza opprimente, il tutto sotto la maestosa regia di Marco Bellocchio.

Carla Cavicchini

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